Pentecoste

Parola di Dio

At 2,1-11: Tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare. (Mi sembra una ripetizione)
Sal 103: R. Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terraR. Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra.
Gal 5,16-25: Il frutto dello Spirito
Gv 15,26-27; 16,12-15: Lo Spirito di verità vi guiderà a tutta la verità Lo Spirito di verità vi guiderà a tutta la verità. (Ripetizione)

 

Commento

Quanto abbiamo celebrato nel Triduo Santo e nel Tempo pasquale, nella Pentecoste trova il suo compimento, come prega il Prefazio di questa solennità: «Oggi hai portato a compimento il mistero pasquale». Il compimento della Pasqua riguarda la nostra persona, perché è in noi che la Pasqua del Signore attende di giungere a pienezza. Una prospettiva che ci proietta nella storia del popolo di Israele, che celebra, cinquanta giorni dopo la Pasqua, la Festa delle Settimane per il dono della Tôrah da parte del Signore e, nell’annuncio dei profeti che attendevano il tempo del compimento, l’effusione dello Spirito su ogni carne, come afferma un testo di Gioele (Gl 3,1), citato nel racconto della Pentecoste negli Atti degli Apostoli.

Ma che cosa significa questa espressione, «compimento della Pasqua», della quale troviamo eco nel racconto degli Atti e nel Prefazio di questa domenica? Il compimento della Pasqua è nel dono dello Spirito, dono di Dio per eccellenza. Tuttavia potremmo chiederci quale sia il rapporto tra il dono dello Spirito e la morte e risurrezione di Gesù. Per ciascun cristiano cosa significa che la Pasqua si compie nel dono dello Spirito? Le letture della liturgia di questa domenica ci guidano a scoprire alcuni tratti di questa realtà così centrale e importante.

Nella prima lettura gli Atti degli Apostoli (At 2,1-11) descrivono il dono dello Spirito con un linguaggio vicino a quello dell’Antico Testamento utilizzato per descrivere il dono della Torah a Mosè sul Sinai. Vi è il vento, il fuoco, il terremoto, il fragore; si tratta di una teofania, una manifestazione di Dio.

Nel brano evangelico (Gv 15,26-27; 16,12-15), tratto dal Vangelo di Giovanni, ci troviamo ancora una volta all’interno del discorso di addio di Gesù. Si parla di una testimonianza che viene resa a Gesù, un tema che attraversa tutto il Quarto Vangelo a partire dalla figura di Giovanni Battista. Tale testimonianza riguarda sia lo Spirito, sia i discepoli ai quali Gesù si rivolge.

Il dono dello Spirito è compimento della Pasqua perché corrisponde al dono della Legge scritta nei nostri cuori (cf. Ger 31,31-34), ma anche perché lo Spirito dipinge in noi i tratti del volto di Gesù: «Vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13). Per Giovanni la verità è Gesù stesso (Gv 14,6), e il dono dello Spirito, quale compimento della Pasqua, ci rende veramente discepoli del Signore ricordandoci tutto ciò che egli ha detto (Gv 14,26).

È proprio grazie al dono dello Spirito che può avvenire in noi quel compimento delle sofferenze di Cristo, cioè della sua Pasqua, di cui parla la Lettera ai Colossesi: «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Comprendiamo così come il compimento della Pasqua non è qualcosa di esterno alla nostra persona, ma una realtà che ci riguarda profondamente.

Noi siamo il luogo nel quale il compimento si realizza: è la nostra docile apertura allo Spirito il luogo nel quale la Pasqua di Gesù si compie facendo germogliare in noi i frutti dello Spirito (cf. Gal 5,16-25). È ciò di cui parla Paolo nella Lettera ai Galati, quando fa riferimento alla vita secondo la carne e secondo lo Spirito come a due logiche di vita opposte e inconciliabili. La vita secondo la carne è la vita dell’uomo che non accoglie in sé la logica della Pasqua, è la vita ripiegata su di sé, nella quale lo Spirito non trova accoglienza; è segnata dalle «opere della carne» (Gal 5,19-21). Una molteplicità di opere indice di divisione e dispersione. Quando invece fa riferimento alla vita secondo lo Spirito, non parla di opere, ma di «frutto» (Gal 5,22), perché nasce grazie a un dono ricevuto e accolto: il dono dello Spirito effuso nei cuori dei credenti, un unico frutto che si manifesta in molteplici sfumature. È un unico frutto perché corrisponde al dono dell’immagine di Cristo in noi per opera dello Spirito.

La Pentecoste è realmente la celebrazione del compimento della Pasqua: un compimento che non ci è estraneo ma che attende di «accadere» in noi e per noi. È la Pasqua del Signore che diviene vita dei credenti.

 

Ascensione del Signore

Parola di Dio

At 1,1-11: Fu elevato in alto sotto i loro occhi
Sal 46; R. Ascende il Signore tra canti di gioia
Ef 4,1-13: Raggiungere la misura della pienezza di Cristo
Mc 16,15-20: Il Signore fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio

 

Commento

Nella Festa dell’Ascensione del Signore dell’anno B il brano evangelico (Mc 16,15-20) è tratto dalla conclusione lunga del Vangelo di Marco, dove si narra l’episodio dell’Ascensione di Gesù, insieme al mandato ai suoi discepoli. Nella prima lettura (At 1,1-11), fissa in ogni ciclo liturgico, troviamo la narrazione del medesimo evento secondo gli Atti degli Apostoli. La seconda lettura (Ef 4,1-13) mostra il mistero dell’Ascensione del Signore come meta a cui il credente tende e lo lega alla vita della Chiesa che oggi attraversa la storia dell’umanità.

La finale lunga di Marco, certamente di mano differente rispetto al resto del Secondo Vangelo, presenta le apparizioni del Risorto (Mc 16,9-14), omesse nella lettura liturgica di questa festa, un discorso di invio di Gesù rivolto ai suoi discepoli (Mc 16,15-18), il racconto dell’Ascensione del Signore con il riferimento alla messa in atto da parte dei discepoli delle sue parole.

L’Ascensione del Signore potrebbe apparire come la fine di una lunga storia iniziata in Galilea sulle rive del lago mentre alcuni pescatori rassettavano le loro reti dopo la pesca. In realtà ci troviamo davanti a un nuovo inizio: non termina una storia, ma la storia riparte per far giungere il Vangelo all’intera creazione. Così iniziava il Vangelo di Marco: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1); ora, al termine dello stesso, si afferma che questo «evangelo», che ha assunto un volto umano lungo le strade della Galilea e della Giudea, deve raggiungere «ogni creatura» (Mc 16,15). Non è sufficiente che raggiunga ogni uomo e donna: deve arrivare alla creazione intera che, come afferma Paolo, attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19). Con l’Ascensione non abbiamo una fine, ma un inizio: colui che sale alla destra di Dio, ora può riempire di sé tutte le cose (Ef 4,10).

Nel Vangelo di Marco, a differenza di quanto ci si attenderebbe, vengono poi elencati da Gesù una serie di segni che accompagneranno coloro che accoglieranno l’annuncio dei missionari. Il Vangelo si diffonde in coloro che sapranno accoglierlo e crederanno, si mostrerà con dei segni concreti e visibili: «Scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16,17-18).

Innanzitutto colui che sarà raggiunto dal Vangelo e lo accoglierà continuerà e prolungherà nella sua vita le opere di Gesù. In secondo luogo parlerà lingue nuove, sarà come il suo maestro: chi l’ascoltava sentiva una parola nuova insegnata con autorità (cf. Mc 1,27). Il terzo segno consisterà nella vittoria sulla morte. Anche in questo caso si tratta di un segno che ha caratterizzato la vita di Gesù stesso. Inoltre, se sarà raggiunto da qualche veleno, non ne riceverà alcun male, perché il suo tesoro è tale che né tignola né ruggine potranno mai consumarlo (cf. Mt 6,19-20), né ladri rubarlo. Infine, il quinto segno, sarà la guarigione dei malati. Come Gesù, coloro che crederanno, sapranno alleviare la malattia di ogni uomo e donna; se altri potranno far loro del male, essi invece porteranno solo guarigione e consolazione.

Il brano del Vangelo termina con il racconto dell’Ascensione di Gesù che lascia i suoi discepoli per andare alla destra del Padre; si conclude con un sommario che descrive l’azione della Chiesa che esegue fedelmente le parole con le quali il Signore risorto l’ha inviata ad ogni creatura. L’annuncio del Vangelo non è opera solamente umana. Il Signore asceso al cielo non ha abbandonato i suoi discepoli ma opera insieme a loro: «Il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16, 20). I segni di cui il Vangelo parla diventano quindi il criterio di discernimento sull’autenticità dell’azione e dell’annuncio della comunità cristiana.

L’annuncio del mistero dell’Ascensione del Signore non è un invito a guardare il cielo – «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1, 11) – ma ad andare per le vie del mondo come uomini e donne trasformati dall’incontro con Gesù con la consapevolezza che il Signore agisce insieme ai suoi discepoli. La seconda lettura mostra come l’Ascensione di Gesù costituisca anche l’indicazione della meta alla quale tutti sono chiamati. Gesù è asceso al cielo non per abbandonare i suoi discepoli, ma «per essere pienezza di tutte le cose». Fondandosi su questa nuova presenza del Signore nell’azione dei suoi discepoli, ogni credente può comprendere la speranza alla quale è stato chiamato (Ef 4,4), la vocazione di ogni uomo, di arrivare tutti «all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,13).

 

VI Domenica di Pasqua

Parola di Dio

At 10,25-27.34-35.44-48: Anche sui pagani si è effuso il dono dello Spirito Santo
Sal 97: R. Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia
1Gv 4, 7-10: Dio è amore
Gv 15, 9-17: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici

 

Commento

Il tempo pasquale continua a farci entrare sempre più nel mistero della Pasqua del Signore: un cammino di interiorizzazione perché il mistero celebrato in unità nel Triduo santo venga accolto in tutta la sua forza ricreatrice per la vita della Chiesa e dell’umanità. La VI domenica del Tempo di Pasqua è caratterizzata principalmente dal tema del comandamento dell’amore che troviamo nel brano evangelico (Gv 15,9-17), tratto, come la domenica precedente, dal discorso di addio nel Vangelo di Giovanni. Nella prima lettura (At 10,25-27.34-35.44-48) l’apostolo Pietro assiste al dono dello Spirito Santo sulla famiglia del pagano Cornelio, episodio che segna l’apertura dell’annuncio del Vangelo a tutte le genti. Nella seconda lettura (1Gv 4,7-10) viene ripreso il tema del comandamento dell’amore.

Il discorso che troviamo nel Vangelo di Giovanni appare forse piuttosto articolato e di non facile comprensione: frasi dense, belle e note espressioni, ma difficili da cogliere nel loro reciproco legame.

Il brano inizia con un’affermazione che porta in sé condensato tutto il suo messaggio: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9), oppure ricalcando il greco: «nell’amore che è a me, che mi appartiene». In questa espressione ritroviamo il mistero del rapporto tra la vite e i tralci (Gv 15,1-8) sul quale la liturgia si è soffermata la domenica precedente. Che cosa significa questo primo versetto? Innanzitutto ritroviamo tre protagonisti, tra i quali c’è un “flusso” d’amore: Gesù, il Padre, i discepoli. In questa relazione c’è un amore fontale, quello tra il Padre e il Figlio, che sta alla base, all’origine dell’amore tra il Figlio e i suoi discepoli. Gesù ha amato i suoi come lui è stato amato dal Padre e i suoi discepoli sono chiamati a rimanere in tale amore.

Ma quali sono i tratti di questo amore? Come si esprime un tale amore? Il Vangelo di Giovanni mostra che rimanere nell’amore di Gesù consiste nell’osservare, si potrebbe anche tradurre nel «custodire», i suoi comandamenti. Sono verbi che toccano nel vivo la vita della Chiesa nel tempo dell’assenza e dell’attesa dello sposo: rimanere, osservare, custodire.

In un primo momento un tale linguaggio – «osservare» i comandamenti – potrebbe stupirci o farci considerare il fatto cristiano come un qualcosa di legato al legalismo, alla pura osservanza di norme. È questo il messaggio di Gesù che il Vangelo di Giovanni ci vuole trasmettere? È possibile che venga chiamata «amore» l’osservanza di comandamenti e di norme? Come potrebbe essere fonte di gioia piena una tale osservanza? Qual è quel comandamento, osservando il quale, il discepolo del Signore può rimanere nell’amore? «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 15,12). Gesù non indica delle norme da adempiere per rimanere nel suo amore, ma un modello da incarnare dal quale non allontanarsi. Il comandamento che il discepolo deve custodire per rimanere nell’amore di Gesù è quello dell’amore vicendevole, che ha come modello e fonte l’amore di Gesù per i suoi discepoli. È una tradizione d’amore che va dal Padre a Gesù e da Gesù ai suoi discepoli.

Il volto dell’amore con il quale Gesù ha amato i suoi discepoli è il volto della sua vita donata, della sua Pasqua nella quale ha «detto tutto» il suo amore per gli uomini, ha rivelato ciò che ha udito dal Padre, e l’amore con il quale il Padre da sempre lo ama. Nella vita donata ai discepoli ha mostrato il volto dell’amore secondo Dio: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

Il «come» iniziale non indica tanto in Giovanni un paragone tra due realtà simili, ma indica la provenienza, la fonte, l’origine di una realtà: i discepoli di Gesù rimarranno nel suo amore se sapranno custodire la comunione, la continuità con l’origine dell’amore che è la Pasqua del Signore e in ultimo il Padre stesso.

Questo è un altro aspetto della Pasqua del Signore che la liturgia celebra nella cinquantina pasquale: la fonte dell’amore, manifestato da chi ci ha scelti e amati per primo, come afferma la seconda lettura. In Gesù ogni uomo e ogni donna, possono entrare nell’amore, in quella relazione che unisce il Padre e il Figlio, grazie al dono dello Spirito, che apre strade nuove e inattese davanti ai passi dei suoi discepoli. È l’esperienza che Pietro stesso racconta con le sue parole nella prima lettura: «In verità sto rendendomi conto che Dio (…) accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (At 10, 34-35).

V Domenica di Pasqua

Parola di Dio

At 9,26-31: Bàrnaba raccontò agli apostoli come durante il viaggio Paolo aveva visto il Signore
Sal 21: R. A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea
1Gv 3,18-24: Questo è il suo comandamento: che crediamo e amiamo
Gv 15,1-8: Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto

 

Commento

La liturgia di questa domenica del Tempo di Pasqua è caratterizzata dal brano evangelico, tratto dal discorso di addio di Gesù nel Vangelo di Giovanni, che ha al suo centro l’immagine della vite e dei tralci (Gv 15,1-8). Nella prima lettura il testo degli Atti degli Apostoli (At 9,26-31) descrive i primi passi del ministero di Paolo e fornisce un altro quadro della Chiesa nascente nel sommario finale. Il brano della seconda lettura (1Gv 3,18-24) offre alcuni spunti per rileggere l’unione del credente con Cristo.

In questo Tempo pasquale, nel quale la Chiesa medita e celebra la presenza del Signore risorto in mezzo a lei come fonte della sua vita e senso del suo camminare nella storia, risuona la parola di Gesù che si definisce come la «vera vite»; i discepoli sono come i tralci che da lui traggono la vita. Emerge innanzitutto la necessità di rimanere uniti a Gesù per avere la vita. È questo il rapporto tra i tralci e la vite: essi rimangono in vita grazie alla linfa che ricevono dalla vite.

Perché viene sottolineato con forza il legame tra Gesù e i suoi discepoli, tanto da essere paragonato a quello che i tralci hanno con la vite? In che cosa consiste tale legame? Qual è la linfa che scorre dalla vite ai tralci?

Per poter rispondere a tali domande, dobbiamo cercare di interpretare le parole di Gesù. Egli parla di una «vite vera»: se Gesù è la vite vera, allora Israele, il popolo di Dio dell’antica alleanza, non è la vite vera, ma quella falsa? Tale conclusione è inaccettabile sia per l’insegnamento delle Scritture sia per il più recente magistero ecclesiale.

Ma vi è un altro modo di leggere tale espressione. Non dobbiamo dimenticare che il mondo della Bibbia spesso utilizza categorie che sono differenti da quelle per noi abituali. Se nella cultura greca, dalla quale dipendiamo, «vero» si oppone a «falso»; in quella ebraica, dalla quale nascono le Scritture ebraico-cristiane, «vero» è piuttosto corrispondente a ciò che noi potremmo definire «fedele». Pertanto potremmo affermare che Gesù identifica se stesso non tanto con la «vite vera», ma con la «vite fedele». Gesù dice: «Io sono la vite, quella fedele».

Emerge allora l’immagine dell’Israele fedele, del resto di Israele che ha custodito la fedeltà al suo Signore e alla Torah, di cui già le Scritture ebraiche ci parlano. Gesù è il Figlio obbediente al Padre, è colui che ha fatto la volontà di Dio e ha donato la sua vita fino alla fine, facendone un capolavoro di umanità. Allora la linfa che scorre dalla vite ai tralci e li mantiene in vita è appunto la «fedeltà», la possibilità di essere figli nel Figlio, di vivere la stessa logica di vita che egli ha vissuto nel suo rapporto con Dio, con i fratelli e le sorelle. Questo è il frutto che i discepoli di Gesù, se rimangono uniti a lui come i tralci alla vite, possono portare; si tratta del frutto nel quale Dio è glorificato, cioè si rivela come operante nella vita dei credenti e risplende davanti agli occhi di tutti.

Questo è il frutto pasquale, il dono che la liturgia di questa domenica celebra e che dobbiamo custodire nella nostra vita. L’eucaristia è la cattedra dalla quale il Signore Gesù ci rivela la sua fedeltà al Padre; partecipando al suo pane e al suo calice anche noi siamo in comunione con questa fedeltà, uniti a lui come i tralci alla vite, per portare frutto e per divenire con la nostra vita una risposta al canto d’amore che Dio canta per la sua vigna.

Tuttavia l’adesione al Signore come il tralcio alla vite non è una questione puramente individuale. C’è una dimensione ecclesiale e comunitaria che è imprescindibile. È quanto emerge nel racconto degli Atti degli Apostoli (prima lettura), nel quale Paolo, dopo l’adesione al Signore, deve necessariamente, grazie alla mediazione di Barnaba, far parte della comunità ed essere accettato in essa per poter svolgere il suo ministero. Gli Atti sottolineano come non ci possa essere adesione autentica al Signore senza un inserimento nella comunità, che passa attraverso la mediazione di altri.

Il testo della seconda lettura sottolinea ancora una volta in che cosa consista la possibilità di «rimanere» in Dio: «Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui» (1 Gv 3,24). Oggi i discepoli di Gesù possono rimanere uniti a lui, come i tralci alla vite, se custodiscono le sue parole. Aderire a Gesù Cristo e alla sua parola, e vivere nell’amore reciproco in comunità è il modo concreto con cui oggi si può avere vita, ricevendo la linfa dalla vite che è il Signore risorto.

 

IV Domenica di Pasqua

Parola di Dio

At 4,8-12: In nessun altro c’è salvezza
Sal 117: R. La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo
1 Gv 3,1-2: Vedremo Dio così come egli è
Gv 10,11-18: Il buon pastore dà la propria vita per le pecore

 

Commento

La IV domenica del Tempo di Pasqua è caratterizzata in tutti i cicli liturgici dalla figura del pastore, che compare nel brano evangelico (Gv 10,11-18). Il rischio è quello di cogliere questo aspetto  in modo troppo tematico e slegato dal mistero della Pasqua che la Chiesa celebra in questo tempo. Non si tratta di prendere il tema di Gesù come pastore in modo generico, ma di comprendere questa prerogativa come uno dei frutti della sua Pasqua per la vita della Chiesa: con la sua morte e risurrezione il Signore è divenuto «pastore» che guida i suoi discepoli verso i pascoli del Regno (cf. Ap 7,17). Nella prima lettura degli Atti degli Apostoli (At 4,8-12) troviamo la testimonianza davanti agli anziani e agli scribi a Gerusalemme di Pietro e Giovanni, arrestati dopo la guarigione del paralitico e la predicazione nel Tempio; nella seconda lettura (1 Gv 3,1-2) della nuova condizione di figli di Dio nella quale si trovano i credenti.

Il messaggio principale del brano evangelico di questa domenica, tratto dal cap. 10 del Vangelo di Giovanni, emerge principalmente dall’uso di due verbi: «deporre» e «riprendere». In questi due termini l’evangelista sintetizza, nella figura del pastore, tutto il senso della vita di Gesù e della sua Pasqua.

Innanzitutto, a proposito del primo verbo, notiamo che Gesù si definisce come il Pastore «bello» [kalos] perché «depone» la vita. Il verbo «deporre» nel Vangelo di Giovanni compare diverse volte. Solamente una volta nella prima parte del Vangelo (Gv 2,10), mentre ben sedici volte nella seconda parte, proprio a partire dal discorso di Gesù sulle pecore e sul pastore (Gv 10,11.15.17; 11.34; 13,4.37; 15,13.16; 19,19.41; 20,2.13.15.). È un verbo importante e indica il gesto di Gesù che esprime il senso più profondo della sua vita, della sua missione, della sua relazione con il Padre e con i suoi discepoli, cioè il dono della vita. È lo stesso verbo che compare quando il Signore nel cenacolo, per compiere il gesto che nel Vangelo di Giovanni esprime massimamente il senso della sua morte, cioè la lavanda dei piedi, «depone» le sue vesti per lavare i piedi (Gv 13,4) ai suoi discepoli e lasciare loro un esempio, un modello da seguire. Il suo corpo, inoltre, dopo la morte, è «deposto» in un sepolcro, e Maria piange la sua scomparsa perché non sa dove l’hanno «deposto». Quindi questo primo verbo ci dice che la bellezza/bontà del «bel Pastore» dipende dal suo amore, che arriva «fino alla fine», fino a «deporre» la sua vita (Gv 13,1).

Il secondo verbo è «riprendere». Il senso della bellezza/bontà del Pastore non è unicamente nel verbo «deporre», che esprime il suo amore e il dono della vita. Gesù, Pastore delle pecore, è detto bello/buono anche per la sua libertà, resa dall’espressione «prendere nuovamente». Gesù depone la sua vita, ma lo fa in piena libertà poiché ha il potere di donarla e di riprenderla di nuovo (Gv 10,18). Proprio perché Gesù vive nella libertà il suo amore, il suo deporre la vita, la sua esistenza può comunicarsi a coloro che gli appartengono. Per questo la sua morte diviene vita nuova, nuova creazione, risurrezione. Come nell’amore, nel deporre la vita, Gesù è un modello di bellezza per i suoi discepoli, così  anche nella libertà. Le pecore che ascoltano la voce del pastore e lo seguono non sono chiamate solo a deporre la propria vita come lui, ma anche a vivere la libertà. Ai suoi discepoli, nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).

In questo senso la IV domenica del Tempo di Pasqua celebra il Signore risorto come buon Pastore: è il frutto della sua Pasqua. La sua vita donata e vissuta nella libertà diventa vita anche per i suoi discepoli. In questo senso egli è il «pastore vero», quello che dona la vita in pienezza e sa condurre su vie sicure.

Nella prima lettura Pietro, davanti agli anziani e agli scribi, rende la sua testimonianza interrogato ancora circa il prodigio della guarigione del paralitico e la sua predicazione. Nelle parole di Pietro, che ribadisce ancora una volta che la guarigione è avvenuta nel nome del Risorto, troviamo altri termini che descrivono il mistero pasquale di Gesù: egli è la pietra scartata, che è divenuta pietra angolare. Così l’azione di deporre e riprendere di nuovo descritta nel Vangelo, viene riletta nell’orizzonte del piano di Dio che rende pietra angolare ciò che il mondo ha scartato, ciò che viene ritenuto debole. Solo in questa «pietra scartata», cioè nella logica che lui ha incarnato, ci può essere salvezza per la vita di ogni uomo e di ogni donna.

Seguendo Gesù buon pastore, ogni uomo e donna può sperimentare il grande amore di Dio che lo rende realmente «figlio», come afferma Giovanni nella seconda lettura. Il credente, «conosciuto» dal pastore, entra nella medesima relazione tra il Padre e il Figlio e diviene così «figlio nel Figlio». È questo un frutto della Pasqua di Gesù che si rende attuale nella vita dei credenti di ogni tempo, chiamati a seguire il Pastore buono/bello nel cammino verso la pienezza del Regno.

III Domenica di Pasqua

Parola di Dio

At 3,13-15.17-19: Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti
Sal 4: R. Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto
1 Gv 2,1-5a: Gesù Cristo è vittima di espiazione per i nostri peccati e per quelli di tutto il mondo
Lc 24,35-48: Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno

 

Commento

Al centro della III domenica del Tempo di Pasqua troviamo ancora un’apparizione del Risorto, a Gerusalemme, la sera del primo giorno dopo il sabato, nel Vangelo di Luca (Lc 24,35-48). Nella prima lettura degli Atti degli Apostoli (At 3,13-15.17-19), la liturgia riporta un passaggio del discorso di Pietro nel Tempio che segue la guarigione del paralitico. Nella seconda lettura (1 Gv 2,1-5a) il testo della Prima Lettera di Giovanni, che caratterizza il ciclo B, applica alla vita dei credenti il perdono dei peccati che si è realizzato nella morte di Cristo.

Nel brano evangelico, che possiamo vedere in continuità e in parallelo con il Vangelo della domenica precedente, il Risorto appare agli Undici la sera del primo giorno dopo il sabato al ritorno dei discepoli di Emmaus, che narrano il loro incontro con il Signore e il suo riconoscimento nello spezzare il pane. Il testo si può suddividere in due parti: nella prima parte la preoccupazione principale sembra quella di dimostrare la verità della risurrezione; nella seconda, invece, il medesimo evento è visto come parte della storia della salvezza e compimento delle Scritture.

La prima parte del testo (Lc 24,36-43) vuole affermare innanzitutto la realtà della risurrezione di Gesù. Davanti al Signore che si manifesta loro, il testo afferma che sorgono nel cuore dei discepoli delle «discussioni». Si usa una terminologia che lascia pensare all’incredulità, all’incapacità di accogliere la verità dell’evento narrato. Di fatto dobbiamo riconoscere che l’evento della risurrezione del Signore è per i discepoli di ogni tempo un evento che suscita nel cuore pensieri e dubbi. È forse l’elemento che maggiormente mette il credente davanti alla serietà della scelta di fede in Gesù come Figlio di Dio e Signore. Il testo di Luca vuole sottolineare con forza la realtà della presenza del Signore risorto nella Chiesa radunata. Non è possibile l’esistenza delle comunità cristiane se non si afferma che la risurrezione di Gesù è un fatto reale; allo stesso tempo però l’Evangelista richiama il legame con la passione. Sono i segni della passione a creare il collegamento tra il Gesù che è vissuto e ha camminato con i suoi discepoli e il Risorto che ora è presente in mezzo a loro.

La seconda parte del brano evangelico (Lc 24,44-49) colloca la passione e la risurrezione di Gesù nel piano salvifico di Dio, testimoniato nelle Scritture ebraiche. Qui emerge un altro elemento importante, già presente nel brano precedente di Emmaus, ma ora esplicitato. Per riconoscere il Risorto, per coglierne la presenza nella vita della Chiesa occorrono le Scritture. Già nel brano di Emmaus, il misterioso viandante rimprovera ai due discepoli di essere «stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!» (Lc 24,25). Ora il Risorto afferma: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44). Facendo riferimento al ministero vissuto con i suoi discepoli – «quando ero ancora con voi» – il Risorto afferma che tutte le Scritture parlano di lui, inaugurando così un principio ermeneutico fondamentale della lettura cristiana della Bibbia.

Il testo sottolinea anche come il Risorto non indichi semplicemente la necessità del compimento di tutte le cose dette di lui nelle tre parti del canone ebraico – Torah/Legge, Profeti e Scritti/Salmi –, ma che la stessa apertura alla comprensione delle Scritture sia dono suo. Se sono le Scritture a condurre all’incontro con il Risorto, d’altra parte è anche vero che è il Signore che dona ai suoi discepoli una rinnovata comprensione delle stesse a partire dall’evento della sua Pasqua. Croce e risurrezione diventano la chiave interpretativa delle Scrittura, ma anche chiave interpretativa della storia e suo centro. Se i discepoli sapranno leggere gli eventi della morte e risurrezione di Gesù alla luce delle Scritture potranno essere testimoni nel mondo, così come mette in luce la prima lettura.

Nel discorso di Pietro troviamo l’annuncio della risurrezione del Signore nel Tempio a Gerusalemme. È appena avvenuta la guarigione del paralitico e i presenti possono pensare che sia stato un atto magico di Pietro a compiere quel prodigio. Nel suo discorso Pietro dichiara subito che ciò che è accaduto non è dovuto a lui, ma a quel Gesù che è stato crocifisso (cf. At 3,12). Se nel Vangelo sono le Scritture a rendere testimonianza della morte e risurrezione di Gesù, qui sono i suoi discepoli ad annunciare la Pasqua a partire dalle loro opere. La vita dei discepoli diventa occasione non per attirare l’attenzione su di sé, ma per annunciare che ciò che si realizza nella loro vita è frutto della presenza del Risorto. Da tale annuncio nasce la possibilità di proclamare la conversione e il perdono che attraverso il Risorto può ora raggiungere tutti. È il modo di agire della Chiesa chiamata a testimoniare non la propria potenza, ma quella del Signore Risorto e Vivente.

Nella seconda lettura ritroviamo il tema del perdono. L’annuncio di Pietro nel Tempio riguarda i credenti di ogni tempo e luogo: Gesù è «la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2,2).

II Domenica di Pasqua

Parola di Dio

At 4,32-35: Un cuore solo e un’anima sola
Sal 117: R. Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre
1 Gv 5,1-6: Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo
Gv 20,19-31: Otto giorni dopo venne Gesù

 

Commento

La II domenica di Pasqua in tutti i cicli liturgici è caratterizzata dai racconti giovannei delle apparizioni del Risorto a Gerusalemme la sera del primo giorno dopo il sabato e otto giorni dopo. Al centro di questa domenica troviamo la figura di Tommaso e la sua professione di fede. Le altre letture variano per ogni ciclo liturgico. Nell’anno B come prima lettura abbiamo un sommario tratto dagli Atti degli Apostoli – sarà il libro biblico che ci accompagnerà in tutto il tempo pasquale – che tratteggia le caratteristiche della vita della prima comunità cristiana (At 4,32-35); la seconda lettura, dalla Prima Lettera di Giovanni, ci permette di applicare il brano evangelico alla vita di fede e all’esperienza del singolo credente.

In questa domenica – siamo otto giorni dopo la risurrezione del Signore, nell’Ottava di Pasqua- il brano evangelico è obbligato; Giovanni, infatti, narra ciò che accadde otto giorni dopo il primo giorno dopo il sabato. Si parla di due apparizioni del Risorto: la prima, il primo giorno dopo il sabato, la seconda, otto giorni dopo. Due quadri, l’uno accanto all’altro, che fanno emergere elementi comuni e differenze che, insieme, concorrono a mettere in evidenza il significato fondamentale del brano. L’elemento comune principale è il tempo: siamo sempre nel giorno della risurrezione del Signore. Il secondo elemento che accomuna le due apparizioni del Risorto sta nel fatto che avvengono mentre i discepoli sono radunati insieme nello stesso luogo. La differenza principale tra le due è invece un’assenza: è di fondamentale importanza, per la comprensione del testo, che la sera del giorno stesso della risurrezione di Gesù, uno dei discepoli non si trovasse insieme agli altri per incontrare il Signore risorto.

La sera di Pasqua il Risorto era apparso ai discepoli ed era rimasto in mezzo a loro, aveva mostrato le mani e i fianchi, facendo vedere i segni della sua passione. Da quella visione era nata la gioia, dono pasquale che deve risplendere sul volto di tutti coloro che hanno incontrato il Signore. Il Risorto poi li aveva inviati, definendo la loro missione come la continuazione della missione che Lui stesso aveva ricevuto dal Padre.

Quando Tommaso, otto giorni dopo, ritorna nel gruppo degli Undici e sente la loro testimonianza, non chiede di fare cose straordinarie, né di avere privilegi: desidera solamente fare la stessa esperienza dei suoi compagni ai quali il Signore risorto aveva mostrato i segni della sua passione, chiede di poter sperimentare la gioia che avevano vissuto i discepoli presenti la sera del giorno della risurrezione. Egli, in questo modo, offre la possibilità a ogni credente di riconoscersi in lui: ciascun cristiano, infatti, non vuole fare altro che giungere a incontrare il Risorto e a riconoscerlo nei segni della sua vita donata.

Otto giorni dopo, Gesù viene di nuovo e sta in mezzo ai discepoli radunati. Quella sera Tommaso, l’assente, è presente e Gesù gli permette di fare la stessa esperienza dei suoi compagni: vedere e toccare i segni della sua passione. Anche Tommaso può essere nella gioia perché ha visto i segni dell’amore di Dio per lui e per questo può giungere a professare personalmente la sua fede: «Mio Signore e mio Dio!».

Gli elementi comuni e la differenza tra le due apparizioni del Risorto rendono il racconto come una «mistagogia» del senso dell’eucaristia domenicale per la vita delle comunità cristiane. Infatti, ogni domenica – «otto giorni dopo» -, quando i discepoli sono riuniti in uno stesso luogo nel giorno della risurrezione, è possibile incontrare il Risorto e porre le proprie mani nelle sue piaghe, nei segni della sua passione, giungendo a professare: «Mio Signore e mio Dio!».

Nella prima lettura (At 4,32-35) troviamo un sommario che descrive alcuni tratti fondamentali della prima comunità cristiana. Innanzitutto viene descritta come caratterizzata da «un cuore solo e un’anima sola» (At 4, 32). Questa profonda comunione, che riguarda il cuore (kardia) e le aspirazioni (psychè), cioè la dimensione interiore della relazione con Dio e ogni altra dimensione della vita umana, ha delle conseguenze concrete all’interno e all’esterno della comunità. All’interno si tratta di una comunità dove si rende testimonianza alla risurrezione e nella quale non ci sono bisognosi, essendo tutto messo in comune; all’esterno di una comunità caratterizzata dalla buona fama presso tutti. Il brano degli Atti ci aiuta a vedere le conseguenze concrete, per la vita interna ed esterna della comunità, dell’esperienza della presenza viva del Signore risorto.

Nella seconda domenica di Pasqua la liturgia si sofferma sul mistero della vita del Risorto presente nella quotidianità della vita della Chiesa e che si rende tangibile – si lascia toccare – nel radunarsi domenicale della comunità. La seconda lettura (1 Gv 5,1-6) tocca principalmente il tema della fede nel Signore Gesù, che potrebbe rappresentare l’elemento unificante di tutte le letture bibliche di questa domenica. La professione di fede di Tommaso, così come quella delle prime comunità cristiane, può essere quella del credente di ogni tempo.

Domenica di Pasqua

Resurrezione del Signore

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA

 

Parola di Dio

Gen 1,1–2,2: (forma breve 1,1.26-31) Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona
Sal 103: Rit. Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra o Sal 32 Rit. Dell’amore del Signore è piena la terra
Gen 22,1-18: (forma breve 22.1-2.9a.10-13.15-18) Il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede
Sal 15: Rit. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio
Es 14,15–15,1: Gli Israeliti camminarono sull’asciutto in mezzo al mare
Es 15,1b-6.17-18: Cantiamo al Signore: stupenda è la sua vittoria
Is 54,5-14: Con affetto perenne il Signore, tuo redentore, ha avuto pietà di te
Sal 29: Rit. Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato
Is 55,1-11: Venite a me e vivrete; stabilirò per voi un’alleanza eterna
Is 12,2.4-6: Rit. Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza
Bar 3,9-15.32–4,4: Cammina allo splendore della luce del Signore
Sal 18: Rit. Signore, tu hai parole di vita eterna
Ez 36,16-17a.18-28: Vi aspergerò con acqua pura e vi darò un cuore nuovo
Sal 41: Rit. Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio o Is 12,2-6 Rit. Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza o Sal 50 Rit. Crea in me, o Dio, un cuore puro
Rm 6,3-11: Cristo risorto dai morti non muore più
Sal 117: Rit. Alleluia, alleluia, alleluia
Mc 16,1-7: Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto

 

Commento

La liturgia della Parola della Veglia pasquale ha un carattere di esemplarità. Dalle letture della notte di Pasqua ogni altra proclamazione della Parola nelle celebrazioni liturgiche trae senso e ispirazione. Nella Veglia, accanto all’ambone, luogo della proclamazione della Parola, splende il cero pasquale, alla luce del quale la Chiesa leggerà le Scritture sante in questa celebrazione, ma anche per tutto il tempo di Pasqua fino al compimento della Pentecoste. Così alla luce di Cristo le Scritture vengono lette e interpretate, a partire dalla creazione fino all’annuncio del dono di un cuore nuovo da parte di Ezechiele profeta e alla narrazione della scoperta della tomba vuota nel brano evangelico. In questo cammino si inserisce anche l’oggi della Chiesa e dell’umanità che vede realizzarsi nel presente della celebrazione ciò di cui fa memoria e ciò che attende.

Nella liturgia della Parola della Veglia troviamo tutte le sfumature e le forme in cui la Parola di Dio si è comunicata e si comunica all’umanità: nella Torà (Genesi, Esodo), nei Profeti (Isaia, Baruc, Ezechiele), negli Scritti (Salmi), nel Nuovo Testamento (Lettera ai Romani e Vangelo).

I due passi del Nuovo Testamento costituiscono il punto di arrivo e il culmine della liturgia della Parola della Veglia. L’annuncio della risurrezione del Signore secondo Marco (Mc 16,1-7) presenta l’evento della tomba vuota nella maniera sconvolgente propria del Secondo Evangelista. L’omissione del v. 8 purtroppo toglie al brano evangelico quella drammaticità e quella sospensione che caratterizza il racconto marciano: «[Le donne] uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite» (Mc 16,8). Quel Gesù che ha sempre camminato avanti ai suoi discepoli, mostrandosi come un Signore inafferrabile che ci conduce sempre oltre, ora «precede» ancora una volta i suoi in Galilea per iniziare con loro un nuovo cammino.

Se il testo evangelico annuncia l’evento della risurrezione del Signore, il brano della Lettera ai Romani (Rm 6,3-11), facendo riferimento al Battesimo, ci annuncia che cosa c’entra con la vita del credente quell’evento. Anche noi siamo «con-sepolti» con Cristo, per essere con lui risuscitati. Paolo ci invita a leggere la Pasqua di Gesù come un fatto che ci riguarda.

Ripercorrendo la liturgia della Parola a ritroso troviamo quattro letture profetiche: una di Ezechiele, una di Baruc e due di Isaia. Il passo di Ezechiele (Ez 36,16-28), culmine di questa seconda serie di letture, si situa in un contesto di rinnovamento che raggiunge l’uomo fin nel suo intimo. Il prologo storico (vv. 17-19) ci parla di una storia di peccato e di ribellione. Di fronte a questa storia Dio non agisce mosso dal peccato, ma per santificare il suo nome. Siamo davanti al liberante annuncio della assoluta gratuità dell’agire di Dio (cf. Rm 5,8). Questo testo di Ezechiele diviene manifestazione del senso della Pasqua come azione gratuita di Dio, che sempre si rinnova nella storia nonostante il peccato e l’infedeltà degli uomini.

Poi abbiamo una terza parte della liturgia della Parola, che potremmo intitolare: le notti di Dio (cf. il Poema delle quattro notti nel Targum di Es 12). Qui troviamo, andando sempre a ritroso, il passaggio del Mar Rosso (Es 14,15-15,1), la prova di Abramo (Gen 22,1-18), la creazione (Gen 1,1-2,2). Si va dalla liberazione alla creazione.

Innanzitutto troviamo l’annuncio di un Dio che libera e salva (III lettura). L’evento del passaggio del mare avviene perché è opera di Dio: questo è uno dei messaggi principali del testo. Non è Israele che combatte e vince il suo avversario, ma qui il popolo è spettatore di un Dio che combatte per lui.

Nel brano della prova di Abramo (II lettura) troviamo il tema della promessa di Dio, che riguarda non solo la vita del Patriarca, ma anche dell’intero popolo di Dio. Siamo al termine del cammino di Abramo, quando al Patriarca viene chiesta la vita del figlio «amato». I Padri della Chiesa hanno spesso riletto questo testo alla luce della morte di Gesù.

Infine abbiamo il racconto della creazione (I lettura). A questo punto è chiaro che non possiamo leggere questo testo nella Veglia pasquale senza pensare alla nuova creazione che è stata inaugurata dalla pasqua di Cristo. Non dimentichiamo che il primo giorno dopo il sabato è anche il giorno in cui Dio ha dato inizio alla creazione, separando la luce dalle tenebre. Nella creazione è il sogno di Dio, la nuova creazione in Cristo, che viene annunciata all’assemblea liturgica radunata per la Veglia di Pasqua.

Nel canto dell’Exultet, che apre la celebrazione della Veglia, si ricorda un fatto singolare della fede cristiana. Questa notte è la sola che ha conosciuto i tempi e l’ora in cui Cristo è risorto. Nessuno dei Vangeli, infatti, ci narra la risurrezione di Gesù. Il centro della nostra fede non è stato descritto da nessuno: solo questa notte ne custodisce per noi il mistero. In essa ognuno può diventare testimone oculare di ciò che occhio non vide né orecchio udì (1Cor 2,9).

 

DOMENICA DI PASQUA
RISURREZIONE DEL SIGNORE

 

Parola di Dio

At 10,34a.37-43: Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti
Sal 117: Rit. Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo oppure Alleluia, alleluia, alleluia
Col 3,1-4: Cercate le cose di lassù, dove è Cristo oppure 1Cor 5,6b-8 Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova
Gv 20,1-9: Egli doveva risuscitare dai morti (nella Messa del giorno)
Lc 24,13-35: Resta con noi perché si fa sera (nella Messa vespertina)

 

Commento

Nella celebrazione del giorno di Pasqua troviamo come brano evangelico la scoperta del sepolcro vuoto il primo giorno dopo il sabato nel Vangelo di Giovanni (Gv 20,1-9). Gli altri testi della liturgia della Parola di questo giorno sottolineano alcuni aspetti del mistero che si celebra. Il brano degli Atti degli Apostoli (At 10,34a.37-43) riporta il quinto discorso di Pietro nel quale l’apostolo ripercorre la vita di Gesù che passò facendo del bene e risanando. Pietro lega gli eventi pasquali all’intera esistenza di Gesù a partire dal battesimo predicato da Giovanni. I discepoli che hanno vissuto con Gesù non sono solo testimoni della sua risurrezione, ma della sua intera esistenza. In questo modo viene sottolineato come tutta la vita di Gesù è stata segnata dalla logica pasquale del dono di sé. Nella Lettera ai Colossesi (1Cor 5,6-8) si proclama che la risurrezione del Signore è ormai un fatto che riguarda la vita di tutti i credenti, che sono «risorti con Cristo» (Col 3,1). Questa realtà illumina di luce nuova la loro esistenza e deve segnare concretamente la loro vita. In fondo nella prima e nella seconda lettura si proclama che come la realtà della Pasqua ha segnato l’intera esistenza terrena di Gesù, così deve anche trasformare ed illuminare quella dei cristiani.

Non dobbiamo leggere il brano evangelico come una cronaca di ciò che avvenne il giorno della risurrezione del Signore, bensì come un itinerario di fede verso l’incontro con lui che i discepoli di ogni tempo possono e devono vivere. Protagonisti di questo itinerario di fede sono Maria Maddalena, la prima testimone della tomba vuota, Pietro e il discepolo che Gesù amava.

Il primo tratto dell’itinerario di fede che il brano evangelico vuole farci compiere è affidato alla figura di Maria Maddalena. Essa si reca al sepolcro spinta dal legame che aveva con il Maestro defunto. È ancora buio e siamo nel primo giorno della settimana, il primo giorno della creazione. Per la prima volta troviamo nel testo il verbo vedere [blepo], che nel Vangelo di Giovanni appartiene al vocabolario della fede. Questa sguardo di Maria, avvolto dal buio esteriore ed interiore nel quale essa si trova, è un modo di guardare che sta ancora all’inizio del cammino di fede. Lo sguardo di Maria è ancora segnato da «una visione materiale, una visione che non comprende» (B. Maggioni). Maria non entra nemmeno nel sepolcro, ma va a dare l’annuncio ai discepoli. La sua incomprensione emerge dalle parole che rivolge ai discepoli: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro» (Gv 20,2).

Alle parole di Maria, Pietro e il discepolo amato corrono alla tomba. I due discepoli corrono al sepolcro e uno dei due, il discepolo amato, corre più forte di Pietro e raggiunge per primo la tomba. Egli tuttavia non entra, ma si china e vede. La sua esperienza è simile a quella di Maria Maddalena: il testo greco usa lo stesso verbo. Tuttavia egli vede qualcosa di più di Maria: si avvicina alla tomba vuota, si china e vede le tele che ricoprivano il cadavere del Signore.

Poi alla tomba giunge anche Pietro. Egli, a differenza dell’altro discepolo, entra nella tomba e vede [theoreo] le bende e il sudario. In questo caso non si usa più lo stesso verbo che abbiamo trovato a proposito di Maria e del discepolo amato. Si tratta di un verbo che indica qualcosa di diverso rispetto a quello usato nei casi precedenti. Non siamo ancora alla meta del cammino, «non è ancora lo sguardo della fede, ma è pur sempre uno sguardo attento, che suscita il problema e rende perplessi» (B. Maggioni).

Infine, entra anche l’altro discepolo. Egli entra, davanti ai suoi occhi trova le stesse cose che vide Pietro, ma di lui si dice che vide (orao) e credette, oppure, potremmo anche dire, «vedendo credette». Qui si usa un terzo verbo che indica la vista, il verbo greco orao. Questo verbo indica «il vedere penetrante di chi sa cogliere il significato profondo di ciò che materialmente appare» (B. Maggioni).

Usando questi verbi diversi per indicare l’unica esperienza del vedere è come se l’evangelista Giovanni volesse indicarci appunto un itinerario di fede. Ci sono personaggi differenti tra loro, che vedono in modo differente anche a seconda della loro vicinanza alla tomba vuota: solo quando entra nel sepolcro vuoto il discepolo che Gesù amava riesce ad avere lo sguardo della fede. Ciò che i discepoli fanno non è altro che l’esperienza di un grande vuoto, l’esperienza di una assenza. Vedono solo i segni dell’assente. Ma entrando nella profondità di quel vuoto e di quell’assenza, lo sguardo può divenire capace di vedere veramente il senso di ciò che è accaduto.

Ma non possiamo dimenticare un altro particolare decisivo: colui che arriva allo sguardo della fede non è, per ora, né Maria Maddalena – di lei il Vangelo di Giovanni parlerà più avanti – né Pietro, bensì quel discepolo senza nome che viene chiamato il discepolo che Gesù amava. Non bastano i segni dell’assenza, occorrono gli occhi dell’amato per arrivare allo sguardo della fede.

L’assemblea liturgica nel giorno di Pasqua è invitata a compiere lo stesso itinerario di fede del discepolo amato per giungere ad uno sguardo che sa penetrare il mistero dell’assenza e del vuoto per arrivare ad una visione diversa della realtà e alla fede. E’ in una conversione dello sguardo alla luce della risurrezione che la liturgia pasquale ci invita ad entrare sulle orme di Maria, Pietro e quel discepolo che Gesù amava.

Venerdì Santo

Parola di Dio

Is 52,13-53,12: Egli è stato trafitto per le nostre colpe
Dal Salmo 30: R. Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito
Eb 4,14-16; 5,7-9: Cristo imparò l’obbedienza e divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono
Gv 18,1-19,42: Passione del Signore

 

Commento

Al centro della liturgia del Venerdì santo sta la proclamazione della Passione del Signore secondo l’evangelista Giovanni. La passione secondo Giovanni (Gv 18,1-19,42) presenta la morte di Gesù in croce come l’intronizzazione del re. Nel prefazio I della passione del Signore si prega: «Nella passione redentrice del tuo Figlio tu rinnovi l’universo e doni all’uomo il vero senso della tua gloria; nella potenza misteriosa della croce tu giudichi il mondo e fai risplendere il potere regale di Cristo crocifisso» (Messale Romano, p. 325).

In questa prospettiva gloriosa, la croce viene adorata come il «trono della grazia». Il brano della seconda lettura (Eb 4,14-16; 5,7-9), esorta: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,16).

Il IV Carme del Servo del Signore ci guida nel cogliere gli elementi di fondo dell’evento della passione e morte del Signore. Innanzitutto, dall’esperienza del protagonista emerge la prima caratteristica, che ritroviamo in Gesù, quella della giustizia. È un uomo giusto al quale viene inflitta una condanna ingiusta (Is 53,8). È un primo tratto indispensabile per cogliere il senso della passione di Gesù. Egli è, come il Servo del Signore, un giusto che per la sua giustizia viene condannato e tolto di mezzo. La sua morte quindi non può essere in alcun modo spiritualizzata, non la si può semplicemente accettare come volontà di Dio, dal momento che è e rimane una ingiustizia. È la sorte del giusto nella storia dell’umanità! (Cf. Sap 2,12-14). La passione e morte di Gesù, come quella del Servo del Signore, è quindi innanzitutto una ingiustizia, mentre colui che subisce questa sorte si presenta come il Giusto.

Un secondo aspetto che possiamo sottolineare è il modo di affrontare la situazione ingiusta nella quale il Servo si viene a trovare in un mondo nel quale l’ingiustizia si impone con prepotenza. Il Servo del Signore, come Gesù davanti ai suoi accusatori, non risponde con gli stessi mezzi violenti. Egli è mite, come coloro che sono stati detti felici nelle beatitudini (Mt 5,5). Del Servo Isaia dice: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca» (Is 53,7). Il giusto ingiustamente condannato affida a Dio la sua difesa e non assume gli stessi mezzi dei suoi accusatori, ma anche nell’ingiustizia rimane giusto.

Un altro elemento importante che emerge nel modo in cui il Servo vive la situazione nella quale si trova, che è già emerso la Domenica delle Palme e il Giovedì santo, è la sua libertà. Sembrerebbe che in tutti i fatti che vengono narrati il Servo sia unicamente una vittima in balia dei suoi nemici. In realtà ciò che avviene è frutto di una sua libera scelta: «ha spogliato se stesso fino alla morte» (Is 53,12). Il Servo non affronta le vicende della sua vita con rassegnazione e passivamente, ma come protagonista che tiene in mano la sua esistenza e non se la lascia sottrarre da coloro che attentano alla sua vita. Questo aspetto emerge molto chiaramente nel racconto della passione. Basta pensare al dialogo con Pilato (Gv 18,28-38) o all’azione di affidare la Madre-Chiesa al discepolo amato (Gv 19,26).

Sempre sulla linea di cogliere la modalità del Servo del Signore di vivere la passione e la morte, possiamo vedere come il testo legga la sua vicenda in quanto dono di sé per la vita degli altri. È un’idea che ritorna con insistenza nel testo: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53, 5; cf. anche Is 53,10). Possiamo proiettare anche quest’aspetto sulla vicenda della passione di Gesù. Anche lui non si presenta come un eroe, che muore unicamente per coerenza con le proprie convinzioni. Se fosse così, gli stessi suoi discepoli non sarebbero altro che i difensori di una causa. Gesù vive sì la sua passione nella libertà, ma per amore dei suoi. Questo aspetto è già emerso nell’episodio della lavanda dei piedi, che si apre proprio con l’affermazione dell’amore di Gesù per i suoi discepoli e per l’umanità fino alla fine (cf. Gv 13,1). È significativo che del Servo si dica che il motivo per cui egli avrà una discendenza sta nel fatto che abbia offerto la sua vita. Anche per Gesù la morte che egli affronta per amore e nella libertà è fonte di vita. Pensiamo al sangue e all’acqua che escono dal costato di Gesù morto in croce: Giovanni stesso interpreta questi elementi come fonte di vita (cf. 1Gv 5,6). Inoltre, il quarto evangelista colloca il dono dello Spirito proprio nel momento in cui Gesù dona la sua vita in croce: «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Il fatto che Giovanni collochi il dono dello Spirito mentre Gesù dona la sua vita in croce, crea un legame tra dono di sé e discendenza, proprio come accade per il Servo del Signore. Nel Vangelo di Giovanni abbiamo già trovato questo annuncio nell’immagine del seme di grano che muore nei solchi della terra per portare frutto (cf. Gv 12,24).

All’inizio del carme si afferma che nell’esistenza del Servo assistiamo ad un fatto mai raccontato (Is 52,15). Nell’esistenza di Gesù e nella sua passione e morte possiamo contemplare questo fatto mai visto: sul volto sfigurato del Servo del Signore, il volto dell’uomo come Dio lo ha sognato e pensato. Per questo anche noi oggi possiamo accostarci con piena fiducia al trono della grazia (II lettura), «per ricevere misericordia e trovare grazia» (Eb 4,16). Oggi la passione del Signore continua nel suo corpo, perché con lui sepolti possiamo risorgere insieme a lui.

Giovedì Santo – Messa in Cena Domini

Parola di Dio

Es 12,1-8.11-14: Prescrizioni per la cena pasquale
Dal Sal 115: R. Il tuo calice, Signore, è dono di salvezza
1Cor 11,23-26: Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore
Gv 13,1-15: Li amò sino alla fine

Commento

La messa In Cena Domini va considerata come il prologo dei tre giorni santi. Come nei Vangeli i racconti dell’ultima cena – istituzione dell’eucaristia nei Sinottici e lavanda dei piedi in Giovanni – hanno la funzione di essere profezia e annuncio della morte di Gesù in croce, così la celebrazione del Giovedì santo diventa chiave interpretativa degli eventi di passione, morte e risurrezione che saranno celebrati nei tre giorni pasquali.

La liturgia della Parola di questa celebrazione è caratterizzata dalla proclamazione del racconto della lavanda dei piedi, secondo il Vangelo di Giovanni (Gv 13,1-15), e dal racconto dell’istituzione dell’eucaristia che Paolo riporta nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 11,23-26). Entrambi i testi hanno la funzione di introdurci nel mistero pasquale rivelando il senso più vero dei fatti ambigui e contraddittori che accompagneranno la passione, morte e risurrezione di Gesù. Il brano della prima lettura (Es 12,1-8.11-14) crea un collegamento tra l’inizio del Triduo pasquale e la Pasqua ebraica. In questo modo gli eventi della morte e risurrezione di Gesù ricevono un’ulteriore interpretazione e possono essere letti in continuità con l’agire di Dio che nella storia si manifesta come salvezza e liberazione.

La lavanda dei piedi ha la funzione di introdurre nei racconti della passione di Gesù. Che cosa vuole dire ai suoi discepoli Gesù compiendo questo gesto così sorprendente? Ci sono state molte proposte di interpretazione del gesto di Gesù, ma in realtà, ciò che Gesù compie, senza peraltro escludere le altre sfumature che il gesto della lavanda può avere, ha un senso principalmente pasquale e rivela la logica della sua vita e quella che egli indica ai suoi discepoli.

Questa decifrazione del testo la troviamo leggendo con attenzione il dialogo tra Gesù e Pietro. Quando Gesù, che sta lavando i piedi dei discepoli, arriva a Pietro, il primo dei Dodici ha una reazione che ci sorprende. Egli afferma: «Tu non mi laverai i piedi in eterno» (Gv 13,8). C’è una ferma chiusura di Pietro nei confronti del gesto incomprensibile del maestro. Gesù allora ribatte: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13,8). Solo dopo queste parole di Gesù Pietro si lascia lavare i piedi e afferma: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo» (Gv 13,9). A questo punto troviamo una frase di Gesù decisiva per la comprensione del testo: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti!» (Gv 13,10).

Pietro, come quando Gesù annunciò per la prima volta la sua passione nei Sinottici, fa fatica a comprendere fino in fondo la logica di Gesù. Nel suo dialogo con il maestro durante il gesto della lavanda dei piedi si rivela il senso più vero e profondo della vita di Gesù, che i suoi discepoli devono saper accogliere per avere parte con lui. I discepoli, che hanno seguito il maestro, hanno visto le sue opere e ascoltato il suo insegnamento, devono fare un ultimo passo per comprendere veramente chi è Gesù per loro e il senso del suo ministero. Il passo che manca loro è quello di accettare Gesù fino in fondo, fino al dono della sua vita negli eventi della passione. Per questo Gesù a Pietro dice: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7). Infatti solo dopo gli eventi della passione i discepoli potranno veramente comprendere il senso della lavanda dei piedi che Gesù compie nei loro confronti.

Il racconto dell’istituzione dell’eucaristia viene riportato nella versione di Paolo nella seconda lettura. Questo racconto ci aiuta a fare un passo ulteriore, in continuità con ciò che abbiamo già affermato in riferimento al brano di Giovanni. Il racconto della cena nella Prima Lettera ai Corinzi ha un tono particolare rispetto alle versioni sinottiche. Paolo tramanda il racconto della cena, che lui stesso ha ricevuto, come antidoto contro le divisioni della comunità di Corinto. In questo brano quindi emerge in modo molto evidente il rapporto tra eucaristia e chiesa/comunità. Non abbiamo quindi unicamente la cronaca di ciò che Gesù fece nell’ultima cena con i suoi discepoli, ma anche il senso della ripetizione dei suoi gesti e delle sue parole per i credenti di ogni generazione. Ripetere i gesti e le parole di Gesù celebrando l’eucaristia, per i suoi discepoli significa annunciare la sua morte e quindi renderla feconda di vita e di comunione per la vita della Chiesa (1Cor 11,26).

I tre testi che compongono la liturgia della Parola del Giovedì santo sono tutti caratterizzati da un comando di ripetizione. Nel brano dell’Esodo Mosè afferma: «Questo giorno sarà per voi un memoriale… lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14). Nel brano paolino troviamo per due volte il comando del Signore «Fate questo in memoria di me!» (1Cor 11,24.25). Infine, dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù afferma: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). Grazie all’obbedienza al comando di ripetizione, i credenti possono sperimentare oggi nella loro vita quella salvezza e liberazione di Dio che nella Pasqua si è manifestata. Per i discepoli questa immagine significa che per essere veramente seguaci di Gesù dovranno fare un ultimo passo, quello di lasciarsi lavare i piedi, cioè di accettare Gesù nei giorni della sua passione. La lavanda dei piedi ci annuncia che per essere veramente discepoli di Gesù anche noi dobbiamo accettare che egli ci lavi i piedi, cioè accoglierlo nel momento in cui per noi dona la vita nella morte di croce.